giovedì 3 dicembre 2009

VIAGGIO NEL PAESE DEI NEGRI

L’altra sera tornavo a casa dopo aver riportato, dopo cena, due ospiti sprovvisti di macchina a casa loro. Rientravo solo alla guida del pick up mentre i fari illuminavano il cartello blu e giallo della terza strada dove abitiamo ormai da due anni e più. E mi ha fatto uno strano effetto, forse perché dell’ormai lontana sera del 17 luglio 2007, quando arrivammo neosposi e carichi di entusiasmo in questa paese africano, quella é l’immagine che mi era restata in testa. Immaginate: ore di coda al recupero bagagli, a spintoni tra omoni sudati e incazzati senza sapere una parola di lingala e nemmeno di francese. E poi l’uscita sul piazzale, con quelli che sarebbero poi diventati i nostri vicini e colleghi di lavoro ad accoglierci. Dopo il posto di blocco dei militari per uscire dall’aeroporto il lungo viale non illuminato, le prime case ai bordi delle strade, tanti lumicini ad illuminare le bancherelle dove figure più scure del solito vendevano chissà cosa. E il primo traffico africano, i furgoncini stracarichi dalle finestrelle intagliate nella lamiera e tutto il resto. Il cartello della troisiéme rue, allora, aveva rappresentato per noi un improvviso cambiamento, anche di prospettiva: lasci il gran viale, che ancora ancora conosci, perché alla fin fine tutti i viali che portano in città si somigliano almeno nella loro funzione principale, cioè proprio quella di portare in città. E ti getti a destra, o a sinistra magari,ma nel nostro caso era stata la destra, ed entri nella vera vita dei quartieri.
Perché nessuno abita un viale, il viale è come un fiume che ti porta a destinazione, e la destinazione è per forza sulla sponda, da qualche parte. E poi l’immagine era rafforzata dal fatto che i fianchi del vialone eran tutti un fiorire di alberi, alti e lussureggianti, e noi ci infilammo proprio lì, in una stradina che ci portò poi alla casa dove abitiamo tuttora.
Un po’ é la sindrome dell’autogrill: ci piacciono perché sono come dei porticcioli, in cui puoi stare tranquillo a sorseggiar caffè mentre dietro di te rombano i camion, e tu sei lì, viaggiatore polveroso che tira il fiato prima di ributtarti nel gran traffico. Il più grande contributo che la cultura americana ha dato al mondo.
Il nostro autogrill l’abbiamo conosciuto, infine, e così i dintorni. Ora non viviamo più la sindrome dell’assedio, conosciamo i nostri dintorni, abbiamo una rete di amicizie, conoscenze, posti che frequentiamo e posti in cui non siamo mai entrati. E quella sera, tornando a casa col pick up era proprio quello che mi aveva colpito: dietro a ogni porticciolo c’é un paese, una vita, e se ti capita di fermarti un po’ di tempo ti capita anche di conoscerlo. La terza strada, casa nostra, si é trasformata in un punto di un reticolo di cui abbiamo imparato ad apprezzare le connessioni.
Forse qualcuno si chiederà del perché del titolo di questo post.
Prima di tutto é perché ho sempre apprezzato le persone capaci di rovinare tutto quanto di buono si potesse dire con una frase fuori luogo, e di conseguenza cerco, quando tocca a me, di seguire questa filosofia di vita. É sufficiente scrivere una boiata qualsiasi, sbagliare un po’ il tono di un discorso d’addio, mettere magari una battuta fuori posto, per lasciare un sentore amarognolo nella bocca di tutti. Non si tratta di fare gaffe, c’é molto di più in tutto questo.
Si tratta della grandezza di sapersi sputtanare un po’ quando si rischia di dar troppa importanza a quello che si sta per dire; riconoscere che in fondo in fondo si parla sempre di fregnacce. Fate una scureggia prima di un discorso funebre: il morto, da dove si trova, apprezzerà.
E poi comunque é quello che abbiamo fatto, abbiamo vissuto un par d’anni in mezzo a della gente che ci colpiva, ci colpisce perché é nera. Continente nero, Africa nera, ué ti negher....
Un giorno quando ero bambino sono andato a vedere una partita di pallacanestro tra il basket Cassano e un’altra squadra. Complice la noia sugli spalti, il padre di un mio amico e un tifoso ospite hanno cominciato a punzeccharsi, poi ad insultarsi, fino all’offesa finale detta dal tifoso incattivito dalla sconfitta: “ ti saluto, Africa”. Si sono messi in quattro per trattenere il nostro compaesano, che accecato dall’offesa é anche inciampato nelle gradinate di cemento.
Avevo otto anni ma capii perfettamente la gravità dell’insulto.
Ora, non la capisco più.

lunedì 9 novembre 2009

domenica 1 novembre 2009

Giovani, carini e disoccupati.

Ci sono film che sono un pugno nello stomaco



Altri, colpiscono un po' più in basso



Questo, al massimo é uno sputo in un occhio





Finalmente in sala(di casa Marsilio) "Febbre suina", definito dai critici la risposta africana al bagaglino. Presentatevi in via Solferino e vi verrà anche offerto un caffé; poi, il Cesco tiene il cineforum.


Ringraziamenti speciali vanno a Valerio e al dottor Moise, che trascurano i malati per assecondare le nostre velleità artistiche.



In memoria di Elia il maiale. Mai attore fu più buono

domenica 20 settembre 2009

A che punto siamo?


Con la pausa estiva le attività culturali del centro sono state annullate in attesa di un trasferimento in un altro quartiere della città vicino all’università, dove il COE ha in progetto di realizzare una casa accoglienza per gli universitari.
Le attività di animazione si sono dunque ridotte alle sole attività sportive: l’èquipe di calcio e quella di basket; per entrambe è ora il periodo della preparzione fisica per il campionato 2009/2010.



Un piccolo annedoto: l’allenatore della squadra di basket che allena anche un’altra squadra con cui ha vinto il campionato di Kinshasa è andato a disputare le fasi finali della coppa del Congo a Lubumbashi. Ma essendo arrivato solo quinto la sua dirigenza ha pensato bene di non pagare alla squadra il biglietto di ritorno lasciandoli per tre settimane abbandonati a loro stessi, senza considerare il fatto che hanno famiglia, lavoro o scuola.

Per quanto riguarda infine il progetto FOCSIV si cominciano a vedere i primi frutti, le costruzioni sono quasi tutte giunte a termine e alcuni partener hanno già avviato la fase di produzione agricola e di allevamento. Questi ultimi due mesi serviranno perlopiù a consolidare le attività di partenariato e promozione della filiera.


martedì 8 settembre 2009

Una goccia nel mare.


In occasione della giornata mondiale per l'alfabetizzazione cogliamo l'occasione per ringraziare tutti gli amici che in questi anni hanno sostenuto gli studi dei bambini che frequentano il nostro centro. Lunedì è ricominciata la scuola ufficialmente ma sono ancora moltissimi i bambini rimasti a casa a causa dell'impossibilità dei genitori di pagare l'anno. Grazie all'aiuto di molti, comunque, il numero si è ridotto.



Nelle foto Nguy riceve una cartella nuova di zecca!



lunedì 31 agosto 2009

Cartoline da Tshimbulu.







Da qualche giorno siamo volati a Tshimbulu perchè Dario ha aiutato i volontari a naugurare una nuova squadra di basket.


In realtà l' attività prosegue un pò a rilento poichè si è cominciato da zero con la fabbricazione dei canestri, la formazione degli allenatori ed in fine della squadra dei bimbi.


Io invece mi sono data alla lettura de " Il cavallo rosso " di Eugenio Corti un romanzo definito dalla critica una formidabile risposta tutta contro corrente alla crisi che paralizza la nostra letteratura, un libro di ben 1280 pagine.... spero di non metterci lo stesso tempo impiegato dall'autore per realizzarlo ( uncidi anni ) e tra una pagina e l'altra ho insegnato ancora qualche bans scouts.


Ai bambini è piaciuta tanto wattaciu ( già insegnata a natale) al punto che in tutto il villaggio quando adesso passa un bianco non lo si saluta più dicendo mojo, bensì "wattaciù"!







venerdì 14 agosto 2009

mercoledì 15 luglio 2009

Quoi, un homme porc?*

Tanto tempo fa costringevo i miei genitori ad assistere agli spettacolini domenicali che inscenavo nella stanzetta di via Allende con mia sorella Chiara.
A distanza di anni.....non ho ancora perso il vizio!!
Posso dire ben riuscito l'intento di organizzare uno spettacolo culturale coi bambini che frequentano il centro che servisse sia a loro come attività ricreativa ed aggregativa sia come materiale da presentare al Gruppo Scouts Gallarate I per una attività di scambio culturale ( ancora in fase di elaborazione).
L'attività, iniziata in ottobre 2008 si è concretizzata nella giornata di sabato 11 luglio, giorno in cui anche Kin ha festeggiato il 50°del COE.
I genitori dei bambini hanno reagito positivamente al punto che hanno vivamente proposto di continuare nell'attività della danza, nonostante la chiusura del centro.
Personalmente sono contenta e soddisfatta del lavoro realizzato, per la possibilità offerta ai bambini di scoprire la bellezza del lavoro di gruppo, e per la dura prova d'esame che ho dovuto affrontare cioè quella di recitare davanti a un pubblico.
Tanto tempo fa una zia mi derideva quando esprimevo la mia intenzione di voler essere un'animatrice nei villaggi turistici, per via della mia indole introversa.
Per fortuna che le persone maturano ...... non mi ci vedo proprio in un camping valtur!!
Ben venga il proverbio bantu " C'est en voygeant qu'on trouve la sagesse, è viaggiando che si diventa saggi".

















* Cosa?...un uomo rosa ( maiale)?


mercoledì 1 luglio 2009

30 giugno 2009.



Abbiamo festeggiato il secondo anno di matrimonio in compagnia di nuovi amici.

Questa volta Dario mi ha concesso un ballo.

domenica 28 giugno 2009

Una sola coppia.......molteplici matrimoni!


Qualche giorno fa si è concluso il rito del matrimonio di Bénédict.
Cominciato a novembre 2008 con la presentazione delle famiglie, si è concentrato poi nei primi tre sabati di giugno con matrimonio tradizionale, matrimonio civile ed infine matrimonio religioso.
Convinti che la religione fosse quella cattolica ci siamo invece ritrovati in una chiesa dell’Esercito della Salvezza che per ben quattro ore ha ricordato a tutti gli invitati, con l’ausilio di ben otto corali e di innumerevoli majorettes, quanto fosse spiritualmente vantaggioso appartenere alla grande famiglia della salvezza.
In effetti è solo grazie alle loro corali della salvezza che abbiamo resistito quattro ore senza cadere in un sonno profondo!!



















lunedì 15 giugno 2009

PASSEGGIANDO PER KINSHASA


Passeggiando per Kinshasa si possono vedere sempre cose nuove, diverse, un brulichio di genti differenti. È pur vero che questo vale per ogni altro posto del globo, la qual cosa toglie una po’ della profondità sottesa a questa frase. Andate alla Malpensa, ai mercati generali di Milano, al mercato del pesce di Molfetta: ci sarà sempre chi vi veda una babele di lingue e un fiorire di culture, facendo così di Babele il più inflazionato tra i luoghi del nostro immaginario, subito prima del dedalo (di viuzze) e del paradiso terreste; che il posto brulichi o sia un deserto vale comunque la pena di spenderci una frase ridondante. La vera rivoluzione sarebbero i posti medi, dove circola gente omogenea che raggiunge una densità abitativa nella norma, lasciando quindi ben poco spazio all’immaginazione. Lì si che ci sarebbe da raccontare qualcosa di diverso. Ad avercene, di posti simili.
Kinshasa quindi è un posto medio, nel senso della medietà che ci si aspetta in un tropico qualunque, cancro o capricorno che sia. Musica dalle casse lungo la strada, gente seduta sul muretto che vende arachidi, pulmini stracarichi oltre l’inverosimile eccetera eccetera. Canali di scolo a guisa di fiumiciattoli misteriosi, da cui ci si aspetterebbe da un momento all’altro di vedere discendere una piroga che trasporta banane; il tutto ricoperto da una spolverata di allegra spazzatura.
Oggi passeggiavo non lontano da casa, incamminandomi verso il gelataio (ebbene sì, anche ai tropici fanno il gelato). Il famigerato brulichio eccetera di colpo mi ha fatto rendere conto di una cosa: quanto sia diventato sordo e cieco in questi due anni passati qui, insensibile ormai alla babele, ai dedali e perfino ai paradisi terrestri. Due anni fa per prima cosa non sarei mai uscito da solo , anche solo per fare poche centinaia di metri. Ancora mi spaventava la fama di Kinshasa come città pericolosa, fama rivelatasi poi infondata. E con essa, è sparito anche quel senso del pericolo, magari non proprio pericolo vero ma un po’ di quel rischio che contribuisce a farci lasciare i nostri paesi e venire a vedere cosa c’è dall’altra parte. Hic sunt leones, venite a cercarveli.Durante le prime uscite per la città ogni lucertola colorata, ogni bambino straccione con le infradito, ogni baobab striminzito era per me fonte di stupore, “LAFRICA” tutt’attaccato che mi immaginavo da bambino , le pance gonfie e le donne con i secchi sulla testa. Ora sovrappensiero penso agli affari miei, schivo i rifiuti e le pozzanghere con destrezza e occasionalmente saluto qualche conoscente. Oggi ho anche guardato negli occhi un signore che lavora di solito non lontano da casa, seduto sotto un albero dove scolpisce tamburi e maschere. Si beveva un caffè, guardava lontano e chissà cosa pensava. E mi è venuto un pensiero, chissà cosa farà quando sarò via, è abbastanza stupefacente pensare che la gente esiste, vive, lavora, fa l’amore e muore anche se non ci siamo noi lì, a vederli. Io ero solo un pedone per lui, forse mi ha notato per il mio colore, e per me lui era uno sfondo, coreografia. E ho capito che morirà, e io pure , nell’indifferenza reciproca, e può sembrar triste ma va bene così, a distanza di migliaia di kilometri si vive e si muore e si tira avanti reciprocamente, e anche se si abita vicini vicini spesso non siamo che figuranti nelle vite degli altri. In fin dei conti non ce ne frega un granché delle persone che attraversano la nostra vita, e non potrebbe essere se non così, rispetto chi mi passa accanto ma non posso certo commuovermi per chiunque.
Questa è la maledizione di quelli che partono per scoprire il mondo, lasciare la banalità della propria casa per scoprire sempre nuove cose, finché ci si rende conto che il nuovo è di nuovo banale e non resta che cambiare casa,un altro posto da scoprire e di cui innamorarsi e di cui disinnamorarsi poco dopo e via così, in una girandola di scoperte che ti lascia ad un certo punto triste e solo e sradicato, né dove restare né dove tornare. C’è n’è da invidiare quelli che hanno speso una vita in ufficio, sposati alla carriera per non sentire il vuoto che pian piano cresce dentro, ma d'altronde che serve una ricca vita spirituale se poi il vuoto te lo ritrovi di fuori.
Tirando le somme di quello che ho imparato qui e ripensando a cosa mi aspettavo quando arrivai, posso dire che non sono diventato africano, son rimasto straniero a casa d’altri e una casa io l’ho, e mi aspetta e ci tornerò. Con questo non voglio dire che la gente non possa trasferirsi e cambiar casa, ma bisogna accettare che quel paese diventi la nostra banalità, perchè solo nella banalità c’è la bellezza e ci si sente a casa. Ho imparato che gli africani c’erano e ci sono tuttora, che per anni hanno vissuto e lavorato e lottato senza che le nostre strade si incontrassero ma non per questo loro non avevano il diritto di esistere e non l’avranno poi, abitanti di un’altra, ennesima Babele.
Ho conosciuto la loro banalità, ma che bellezza.

martedì 9 giugno 2009

Kin (o King) la belle


Kinshasa somiglia ad una bella donna, elegante e sofisticata, allungata pigramente sulla sponda del grande fiume da cui occhieggia sorniona la sua gemella minuta, la piccola Brazzaville.
É un fatto che ogni città su di un grande fiume venga sempre paragonata ad una donna pigramente distesa ad occhieggiare, come se le donne al fiume non facessero altro che quello; ci si dimentica secoli di panni lavati e acqua portata sulla testa. Sarà che la città é donna, di nome e forse anche di fatto, cosí complicata e incomprensibile; almeno per gli uomini, che da sempre battezzano con il nome delle proprie paure.
Mi piacerebbe dunque potermi adagiare sul facile cliché, perché in fondo in fondo quante città non ci dicono niente, ci passano davanti o ci passiamo dentro come telespettatori e a distanza di anni "..si..!" Mi ricordo la tal cosa ma chissa dove é avvenuta, una città come sfondo del nostro mondo ma non del suo, città che non esiste quindi, e chissà se c’era il mare dietro quella volta che leggevo la gazzetta o era in un bar di Milano; e anche se ci ricordiamo il posto non é l’architettura che conta, quello che ci colpí l’avevamo in testa, quel giorno.
Kinshasa sta sul fiume, quindi. Madre di milioni di figli, assurta al ruolo di capitale partendo dal suo essere villaggio solo in funzione della posizione, che cosí stava bene ai belgi e tanto bastava.
Madre scelta da un padre invasore che ne aveva provate altre, concubina involontaria ma non matrigna. Porta ancora le cicatrici del matrimonio finito, e per questo la si guarda con pietà, come farebbe appunto un figlio con gli occhi neri che il papà fà alla mamma quando torna a casa ubriaco. Sta sul fiume ma non si bagna più, se non accidentalmente. (E qui i parallelismi con le donne, almeno con alcune, si sprecano). Alte mura la separano dal suo fiume, quell’arteria che ne ha giustificato la nascita e l’esistenza, e adesso non si guardano nemmeno. Kinshasa guarda al di là del mare la terra di quell’amante che sí la picchiava, sí l’umiliava e forse ne rideva con gli amici, ma almeno facevan vita mondana, per un poco han fatto parte del bel mondo. E non importa se per farlo ha dovuto tagliare le proprie radici, se ora si trova in un paese che non la riconosce più e che non sa più riconoscere, esiliata in un angolo della stanza dove i figli fanno un casino tale ma che gli arriva comunque ovattato. A lei non resta che qualche vecchia storia da raccontare, qualche sera dove indossare la minigonna in ricordo dei vecchi tempi e uscire a ballare, ma intanto é rimasta a casa con una nidiata di affamati ed é sola e stanca. Una specie di ex cantante pop anni ottanta, ma senza lifting a supportare l’operazione nostalgia.
Io non sono nato qui, e non condivido l’allegria che i Kinois riescono tutto sommato a mantenere: possibile solo se ci si dimentica dell’impegno civile, dello stato sociale, dell’ambiente, della salute, della pace. Possibile solo se si é nati Kinois, popolo di egoisti generosi, incapaci di pensarsi come società, come collettività di intenti, ma capaci altresí di grandi slanci individuali, gesti di umanità isolati. E dire che un certo parallelismo con gli italiani si intravede.
Un giorno ho sentito definire Kinshasa una città mostro: Kin come King, il mostro dal lato umano ma dall’aspetto spaventoso, capace allo stesso tempo di ammazzare un passante e di amare teneramente una bionda. Dilaniato dalle due anime, sappiamo che fine ha fatto: sperando che la comunanza di temperamento non significhi una comunanza di destini.
Personalmente odio Kinshasa di quell’odio tenerissimo che io, incapace di perdonare le persone infelici, riserverei ad un genitore che ha buttato via il meglio della sua gioventù e ora si strugge senza lacrime; che nasconde i suoi sogni passati con senso del ridicolo.
Ti passeró a trovare ogni tanto, se vuoi, ti vorró sempre bene, ma non potró viverti accanto.
Mi spiace.

mercoledì 27 maggio 2009

Tosangi na ndako


Siamo tornati dalla Tanzania felici di aver trascorso un periodo in compagnia dei nostri cari amici e di aver visitato un paese diverso ed affascinante.

Purtroppo al nostro ritorno i disagi dimenticati sono ripiombati tutti e ancor di più... un fulmine ha bruciato l'antenna della TV e di internet da circa un mese e ad oggi i tecnici della compagnia telefonica ci fanno penare.
Ci siamo organizzati con nuove tecnologie ..... il nuovo si paga, quindi ci connetteremo per ora raramente.

martedì 21 aprile 2009

Di nuovo insieme.

Per qualche settimana raggiungeremo i nostri amici in Tanzania, in compagnia del Checco.
....finalmente vacanza!....

sabato 18 aprile 2009

Forse è arrivata anche qui la primavera?

Questa mattina il nostro splendido albero Mongafula è stato preso d'assalto da tanti uccellini di varie forme e colori.
In pochi minuti i rumori di fondo delle fabbriche che ci circondano sono stati coperti dal suono più dolce del loro cinguettio.
Uno splendido e breve spettacolo che mi ha ricordato per un istante la primavera.




lunedì 16 marzo 2009

Africa, terra di opportunità


Nell’ immaginario collettivo é sempre stata l’America la terra delle opportunità, delle speranze, ricettacolo per ogni sorta di avventurieri, scollati e sfaccendati d’ Europa. A partire dal Mayflower dei quaccheri disadattati fino agli inizi del secolo, quando tanti di Caprio meno bohémienne e più sporchi della versione cinematografica (ma un po’ più fortunati, certo) andarono ad ingrossare le file dei disperati nelle metropoli del nuovo mondo. Non é un caso che ancora adesso l’America del nord sia l’unico posto al mondo dove si possa acquisire la residenza attraverso la lotteria, una specie di certificazione dell’ american way of life intesa come ultima risorsa di quelli che non hanno niente da offrire al mondo, se non un po' di fortuna o di faccia tosta.
E mentre si creavano i miti e riti dell’immigrazione americana, e l’ immaginario collettivo si plasmava sulle immagini alla Don Vito Corleone, ma anche alla Mike Bongiorno fino ad arrivare a Bad Spencer e Terence Hill, che ne era dell’Africa nell’immaginario europeo? O meglio, chi era l’europeo che viveva in Africa, nell’immaginario europeo? Perché l’africano si sa, si conosce dal tempo in cui li rapivamo per mandarli a lavorare dall’altra parte dell’oceano, e neanche ci ringraziavano che gli trovavamo un’occupazione coi tempi che correvano. Sono baluba, che se non son pigri son cattivi, e se non son cattivi sono troppo buoni, oscillanti tra l’ immagine del buon selvaggio alla Venerdì di Robinson Crusoe che non ha l’orologio perché lui ha il tempo, al cannibale genocidiario ruandese che gira in mercedes, tortura i sudditi e ne mangia il cuore. E in mezzo a questi estremi umani viveva un altrettanto caricaturale esemplare di bianco, una vita nella bidonville o nelle ville coloniali, il prete eroe, la suorina martire dotati entrambi di straripante entusiasmo ed amore per il prossimo o il freddo mercante di diamanti-armi-medicine-coltan che va con le bambine e spara all’ultimo esemplare di rinoceronte bianco, in una sorta di sinistra aderenza tra tipi umani.
Fosse così semplice, l’Africa che sconta il sottosviluppo come pegno alla sua doppia anima troppo ingenua o troppo spietata e i bianchi che arrivano perché o troppo buoni o troppo cattivi per guardare e basta.
Arrivare a Kinshasa significa invece rimanere stupiti della varietà umana che vi si ritrova, alcune donne che sembrano uscire direttamente da un dipinto ad olio di inizio secolo, circondate da europei in tenuta cachi e cappellone da safari, accanto ad uomini in giacca e cravatta che passerebbero inosservati nella metropolitana di Parigi o in quella di Londra. E ancora la maggioranza dei ragazzi, delle persone, che non sono ne businessman ma neanche stregoni di qualche tribù per il disappunto degli europei di passaggio con velleità etnografiche, ma semplici ragazzi che vivono l’anima africana contemporanea, fatta di telefonini e malocchio, sincretismi cristiano animisti e sogni di espatrio in occidente.
Ma la varietà umana la si riscontra anche tra gli europei, che non sono solo preti coi sandali e il tao o sinistri mercanti con amanti nere e mogli rifatte, ma bensi’ una quantità di tipi umani francamente stupefacente, al punto che ci si domanda, visto il grande benessere e progresso che questi ultimi dovrebbero portare, il perché di risultati così deludenti. Dai cooperanti con jeep bianca e antenna satellitare che neanche una spedizione al polo fino agli addetti delle nazioni unite che infestano ristoranti e supermercati, dai panciuti uomini di qualche impresa belga rigorosamente con doppio cellulare alla cintura e gambe pallide sotto i bermuda, fino agli affaristi libanesi che hanno in mano il commercio del paese, é la mediocrità il sinistro tratto che tutti accomuna.
Ong dai budget vertiginosi gestiti da neolaureati in stage; congregazioni dotate di strutture che per girarle ci vuole un’automobile, con parchi macchine in cui si può perdere il conto, dove vivono seppellite quattro suorine che gestiscono un dispensario o una sartorie di abiti sacri ; e ancora direttori di enti benefici con i cordoni della borsa sempre aperti ma dalla professionalità perlomeno dubbia, impegnati in una pioggia di aiuti che però trovano stranamente qualche intoppo: la montagna che partorisce il topolino, e a volte nemmeno quello.
Personalmente sono passato direttamente dallo scarico bagagli a Malpensa alle cene dai governatori, le riunioni alle ambasciate, le amicizie personali con i rettori e le chiacchierate tête a tête con i vescovi; e tutto questo rifuggendo i supposti onori. Datevi minimamente da fare, ripulitevi un po’ e girate con una cartelletta: l’Africa non aspetta che voi per affidarvi fondi e responsabilità che in Italia nessuno si sogna di darvi. Mal che vada si avrà qualche spreco, ma si sa che la missione non é facile per nessuno, che gli africani sono imbroglioni, che chi non fa non sbaglia : una pacca sulla spalla e si ricomincia.
Quando Conrad narrò il suo Congo in Cuore di tenebra, avvertì subito i lettori : laggiù non avrebbero trovato il demone vigoroso delle passioni umane, quello che può sfociare nel male assoluto come nelle grandi imprese, bensì quello pigro, molle della cupidigia e dell’accidia, la mediocrità come rumore di fondo. A distanza di anni il ritratto non é molto dissimile, e ancora quest’ angolo d’Africa é così, é ancora terra di oppurtunità, una novella America per chi in Europa é un signor nessuno e non si può permettere l’autista, le amicizie col segretario dell’ambasciata e di dare del tu a tutti.
E’ questa spesso la ricetta del mal d’Africa: é la nausea dell’anonimato di ritorno, dove nessuno ti chiama padrone e se hai dei fondi devi rispondere di come li spendi; dove sei importante solo al bar sotto casa.
Africa, terra di opportunità : per gli africani, l’ ennesima sprecata.


domenica 8 marzo 2009

Festa della donna 2009.









Donna africana dalla pelle d'ebano,

color della terra che nutre gli uomini!

Donna nera dagli occhi lucenti,

simili alla vivacità del sole

che ogni mattina dona nuova speranza.

Colei è la "Mama Afrika".

Così esordisce una delle tante poesie che oggi celebrano la donna africana.

In splendidi e coloratissimi abiti, pagnes, mettono in mostra la loro femminilità indipendentemente dall'età.

Presso il nostro centro tutte le donne sono state festeggiate venerdì grazie all'intervento di una educatrice sul ruolo della donna nella società ed un breve spettacolo di danza; mentre oggi Kinshasa brulica di associazioni che sfilano nei loro abiti tradizionali davanti allo stadio dei martiri per manifestare di concerto l' impegno di ciascuna per un Congo migliore, al grido di Je dénonce.

martedì 24 febbraio 2009

HIC SUNT LEONES ?

Il soggiorno dei nostri splendidi ed ogni tanto impacciati dalle novità, genitori è giunto al termine.





Ci hanno accompagnato nelle nostre mansioni per due brevissime ed intense settimane con impressioni a caldo dettate dal forte contrasto che indubbiamente Kinshasa porta rispetto alle nostre città italiane.


Non sappiamo se siano tornati a casa col troppo decantato " Mal d'Africa" .... ma ci auguriamo che i luoghi e le persone incontrate gli abbiano aiutati a farsi un'immagine dell'Africa diversa da quella presentata, a volte dimenticata, dai media.




Un'immagine di un'Africa che guarda al futuro con tutti i limiti

che il passato le impone.


















Re Leopoldo guarda il fiume Congo: a destra Brazaville, a sinistra Kinshasa.









Le mamme in posa con quattro dei bambini che usufruiscono delle borse di studio per l'anno scolastico 2008/09.




Costruzione di uno dei porcili del progetto Focsiv-Lisanga.








Papà Corrado presso l'ospedale di Tshimbulu ( centro-sud del Paese) in compagnia di un infermiere che ha beneficiato del corso di radiologia.








Turisti in posa davanti all'imbarcazione che Stanley adoperò per risalire il fiume Congo.
Mamme sulla rivière N'dzele.

Bimba imbronciata dal troppo sole..