domenica 28 giugno 2009

Una sola coppia.......molteplici matrimoni!


Qualche giorno fa si è concluso il rito del matrimonio di Bénédict.
Cominciato a novembre 2008 con la presentazione delle famiglie, si è concentrato poi nei primi tre sabati di giugno con matrimonio tradizionale, matrimonio civile ed infine matrimonio religioso.
Convinti che la religione fosse quella cattolica ci siamo invece ritrovati in una chiesa dell’Esercito della Salvezza che per ben quattro ore ha ricordato a tutti gli invitati, con l’ausilio di ben otto corali e di innumerevoli majorettes, quanto fosse spiritualmente vantaggioso appartenere alla grande famiglia della salvezza.
In effetti è solo grazie alle loro corali della salvezza che abbiamo resistito quattro ore senza cadere in un sonno profondo!!



















lunedì 15 giugno 2009

PASSEGGIANDO PER KINSHASA


Passeggiando per Kinshasa si possono vedere sempre cose nuove, diverse, un brulichio di genti differenti. È pur vero che questo vale per ogni altro posto del globo, la qual cosa toglie una po’ della profondità sottesa a questa frase. Andate alla Malpensa, ai mercati generali di Milano, al mercato del pesce di Molfetta: ci sarà sempre chi vi veda una babele di lingue e un fiorire di culture, facendo così di Babele il più inflazionato tra i luoghi del nostro immaginario, subito prima del dedalo (di viuzze) e del paradiso terreste; che il posto brulichi o sia un deserto vale comunque la pena di spenderci una frase ridondante. La vera rivoluzione sarebbero i posti medi, dove circola gente omogenea che raggiunge una densità abitativa nella norma, lasciando quindi ben poco spazio all’immaginazione. Lì si che ci sarebbe da raccontare qualcosa di diverso. Ad avercene, di posti simili.
Kinshasa quindi è un posto medio, nel senso della medietà che ci si aspetta in un tropico qualunque, cancro o capricorno che sia. Musica dalle casse lungo la strada, gente seduta sul muretto che vende arachidi, pulmini stracarichi oltre l’inverosimile eccetera eccetera. Canali di scolo a guisa di fiumiciattoli misteriosi, da cui ci si aspetterebbe da un momento all’altro di vedere discendere una piroga che trasporta banane; il tutto ricoperto da una spolverata di allegra spazzatura.
Oggi passeggiavo non lontano da casa, incamminandomi verso il gelataio (ebbene sì, anche ai tropici fanno il gelato). Il famigerato brulichio eccetera di colpo mi ha fatto rendere conto di una cosa: quanto sia diventato sordo e cieco in questi due anni passati qui, insensibile ormai alla babele, ai dedali e perfino ai paradisi terrestri. Due anni fa per prima cosa non sarei mai uscito da solo , anche solo per fare poche centinaia di metri. Ancora mi spaventava la fama di Kinshasa come città pericolosa, fama rivelatasi poi infondata. E con essa, è sparito anche quel senso del pericolo, magari non proprio pericolo vero ma un po’ di quel rischio che contribuisce a farci lasciare i nostri paesi e venire a vedere cosa c’è dall’altra parte. Hic sunt leones, venite a cercarveli.Durante le prime uscite per la città ogni lucertola colorata, ogni bambino straccione con le infradito, ogni baobab striminzito era per me fonte di stupore, “LAFRICA” tutt’attaccato che mi immaginavo da bambino , le pance gonfie e le donne con i secchi sulla testa. Ora sovrappensiero penso agli affari miei, schivo i rifiuti e le pozzanghere con destrezza e occasionalmente saluto qualche conoscente. Oggi ho anche guardato negli occhi un signore che lavora di solito non lontano da casa, seduto sotto un albero dove scolpisce tamburi e maschere. Si beveva un caffè, guardava lontano e chissà cosa pensava. E mi è venuto un pensiero, chissà cosa farà quando sarò via, è abbastanza stupefacente pensare che la gente esiste, vive, lavora, fa l’amore e muore anche se non ci siamo noi lì, a vederli. Io ero solo un pedone per lui, forse mi ha notato per il mio colore, e per me lui era uno sfondo, coreografia. E ho capito che morirà, e io pure , nell’indifferenza reciproca, e può sembrar triste ma va bene così, a distanza di migliaia di kilometri si vive e si muore e si tira avanti reciprocamente, e anche se si abita vicini vicini spesso non siamo che figuranti nelle vite degli altri. In fin dei conti non ce ne frega un granché delle persone che attraversano la nostra vita, e non potrebbe essere se non così, rispetto chi mi passa accanto ma non posso certo commuovermi per chiunque.
Questa è la maledizione di quelli che partono per scoprire il mondo, lasciare la banalità della propria casa per scoprire sempre nuove cose, finché ci si rende conto che il nuovo è di nuovo banale e non resta che cambiare casa,un altro posto da scoprire e di cui innamorarsi e di cui disinnamorarsi poco dopo e via così, in una girandola di scoperte che ti lascia ad un certo punto triste e solo e sradicato, né dove restare né dove tornare. C’è n’è da invidiare quelli che hanno speso una vita in ufficio, sposati alla carriera per non sentire il vuoto che pian piano cresce dentro, ma d'altronde che serve una ricca vita spirituale se poi il vuoto te lo ritrovi di fuori.
Tirando le somme di quello che ho imparato qui e ripensando a cosa mi aspettavo quando arrivai, posso dire che non sono diventato africano, son rimasto straniero a casa d’altri e una casa io l’ho, e mi aspetta e ci tornerò. Con questo non voglio dire che la gente non possa trasferirsi e cambiar casa, ma bisogna accettare che quel paese diventi la nostra banalità, perchè solo nella banalità c’è la bellezza e ci si sente a casa. Ho imparato che gli africani c’erano e ci sono tuttora, che per anni hanno vissuto e lavorato e lottato senza che le nostre strade si incontrassero ma non per questo loro non avevano il diritto di esistere e non l’avranno poi, abitanti di un’altra, ennesima Babele.
Ho conosciuto la loro banalità, ma che bellezza.

martedì 9 giugno 2009

Kin (o King) la belle


Kinshasa somiglia ad una bella donna, elegante e sofisticata, allungata pigramente sulla sponda del grande fiume da cui occhieggia sorniona la sua gemella minuta, la piccola Brazzaville.
É un fatto che ogni città su di un grande fiume venga sempre paragonata ad una donna pigramente distesa ad occhieggiare, come se le donne al fiume non facessero altro che quello; ci si dimentica secoli di panni lavati e acqua portata sulla testa. Sarà che la città é donna, di nome e forse anche di fatto, cosí complicata e incomprensibile; almeno per gli uomini, che da sempre battezzano con il nome delle proprie paure.
Mi piacerebbe dunque potermi adagiare sul facile cliché, perché in fondo in fondo quante città non ci dicono niente, ci passano davanti o ci passiamo dentro come telespettatori e a distanza di anni "..si..!" Mi ricordo la tal cosa ma chissa dove é avvenuta, una città come sfondo del nostro mondo ma non del suo, città che non esiste quindi, e chissà se c’era il mare dietro quella volta che leggevo la gazzetta o era in un bar di Milano; e anche se ci ricordiamo il posto non é l’architettura che conta, quello che ci colpí l’avevamo in testa, quel giorno.
Kinshasa sta sul fiume, quindi. Madre di milioni di figli, assurta al ruolo di capitale partendo dal suo essere villaggio solo in funzione della posizione, che cosí stava bene ai belgi e tanto bastava.
Madre scelta da un padre invasore che ne aveva provate altre, concubina involontaria ma non matrigna. Porta ancora le cicatrici del matrimonio finito, e per questo la si guarda con pietà, come farebbe appunto un figlio con gli occhi neri che il papà fà alla mamma quando torna a casa ubriaco. Sta sul fiume ma non si bagna più, se non accidentalmente. (E qui i parallelismi con le donne, almeno con alcune, si sprecano). Alte mura la separano dal suo fiume, quell’arteria che ne ha giustificato la nascita e l’esistenza, e adesso non si guardano nemmeno. Kinshasa guarda al di là del mare la terra di quell’amante che sí la picchiava, sí l’umiliava e forse ne rideva con gli amici, ma almeno facevan vita mondana, per un poco han fatto parte del bel mondo. E non importa se per farlo ha dovuto tagliare le proprie radici, se ora si trova in un paese che non la riconosce più e che non sa più riconoscere, esiliata in un angolo della stanza dove i figli fanno un casino tale ma che gli arriva comunque ovattato. A lei non resta che qualche vecchia storia da raccontare, qualche sera dove indossare la minigonna in ricordo dei vecchi tempi e uscire a ballare, ma intanto é rimasta a casa con una nidiata di affamati ed é sola e stanca. Una specie di ex cantante pop anni ottanta, ma senza lifting a supportare l’operazione nostalgia.
Io non sono nato qui, e non condivido l’allegria che i Kinois riescono tutto sommato a mantenere: possibile solo se ci si dimentica dell’impegno civile, dello stato sociale, dell’ambiente, della salute, della pace. Possibile solo se si é nati Kinois, popolo di egoisti generosi, incapaci di pensarsi come società, come collettività di intenti, ma capaci altresí di grandi slanci individuali, gesti di umanità isolati. E dire che un certo parallelismo con gli italiani si intravede.
Un giorno ho sentito definire Kinshasa una città mostro: Kin come King, il mostro dal lato umano ma dall’aspetto spaventoso, capace allo stesso tempo di ammazzare un passante e di amare teneramente una bionda. Dilaniato dalle due anime, sappiamo che fine ha fatto: sperando che la comunanza di temperamento non significhi una comunanza di destini.
Personalmente odio Kinshasa di quell’odio tenerissimo che io, incapace di perdonare le persone infelici, riserverei ad un genitore che ha buttato via il meglio della sua gioventù e ora si strugge senza lacrime; che nasconde i suoi sogni passati con senso del ridicolo.
Ti passeró a trovare ogni tanto, se vuoi, ti vorró sempre bene, ma non potró viverti accanto.
Mi spiace.