giovedì 3 dicembre 2009

VIAGGIO NEL PAESE DEI NEGRI

L’altra sera tornavo a casa dopo aver riportato, dopo cena, due ospiti sprovvisti di macchina a casa loro. Rientravo solo alla guida del pick up mentre i fari illuminavano il cartello blu e giallo della terza strada dove abitiamo ormai da due anni e più. E mi ha fatto uno strano effetto, forse perché dell’ormai lontana sera del 17 luglio 2007, quando arrivammo neosposi e carichi di entusiasmo in questa paese africano, quella é l’immagine che mi era restata in testa. Immaginate: ore di coda al recupero bagagli, a spintoni tra omoni sudati e incazzati senza sapere una parola di lingala e nemmeno di francese. E poi l’uscita sul piazzale, con quelli che sarebbero poi diventati i nostri vicini e colleghi di lavoro ad accoglierci. Dopo il posto di blocco dei militari per uscire dall’aeroporto il lungo viale non illuminato, le prime case ai bordi delle strade, tanti lumicini ad illuminare le bancherelle dove figure più scure del solito vendevano chissà cosa. E il primo traffico africano, i furgoncini stracarichi dalle finestrelle intagliate nella lamiera e tutto il resto. Il cartello della troisiéme rue, allora, aveva rappresentato per noi un improvviso cambiamento, anche di prospettiva: lasci il gran viale, che ancora ancora conosci, perché alla fin fine tutti i viali che portano in città si somigliano almeno nella loro funzione principale, cioè proprio quella di portare in città. E ti getti a destra, o a sinistra magari,ma nel nostro caso era stata la destra, ed entri nella vera vita dei quartieri.
Perché nessuno abita un viale, il viale è come un fiume che ti porta a destinazione, e la destinazione è per forza sulla sponda, da qualche parte. E poi l’immagine era rafforzata dal fatto che i fianchi del vialone eran tutti un fiorire di alberi, alti e lussureggianti, e noi ci infilammo proprio lì, in una stradina che ci portò poi alla casa dove abitiamo tuttora.
Un po’ é la sindrome dell’autogrill: ci piacciono perché sono come dei porticcioli, in cui puoi stare tranquillo a sorseggiar caffè mentre dietro di te rombano i camion, e tu sei lì, viaggiatore polveroso che tira il fiato prima di ributtarti nel gran traffico. Il più grande contributo che la cultura americana ha dato al mondo.
Il nostro autogrill l’abbiamo conosciuto, infine, e così i dintorni. Ora non viviamo più la sindrome dell’assedio, conosciamo i nostri dintorni, abbiamo una rete di amicizie, conoscenze, posti che frequentiamo e posti in cui non siamo mai entrati. E quella sera, tornando a casa col pick up era proprio quello che mi aveva colpito: dietro a ogni porticciolo c’é un paese, una vita, e se ti capita di fermarti un po’ di tempo ti capita anche di conoscerlo. La terza strada, casa nostra, si é trasformata in un punto di un reticolo di cui abbiamo imparato ad apprezzare le connessioni.
Forse qualcuno si chiederà del perché del titolo di questo post.
Prima di tutto é perché ho sempre apprezzato le persone capaci di rovinare tutto quanto di buono si potesse dire con una frase fuori luogo, e di conseguenza cerco, quando tocca a me, di seguire questa filosofia di vita. É sufficiente scrivere una boiata qualsiasi, sbagliare un po’ il tono di un discorso d’addio, mettere magari una battuta fuori posto, per lasciare un sentore amarognolo nella bocca di tutti. Non si tratta di fare gaffe, c’é molto di più in tutto questo.
Si tratta della grandezza di sapersi sputtanare un po’ quando si rischia di dar troppa importanza a quello che si sta per dire; riconoscere che in fondo in fondo si parla sempre di fregnacce. Fate una scureggia prima di un discorso funebre: il morto, da dove si trova, apprezzerà.
E poi comunque é quello che abbiamo fatto, abbiamo vissuto un par d’anni in mezzo a della gente che ci colpiva, ci colpisce perché é nera. Continente nero, Africa nera, ué ti negher....
Un giorno quando ero bambino sono andato a vedere una partita di pallacanestro tra il basket Cassano e un’altra squadra. Complice la noia sugli spalti, il padre di un mio amico e un tifoso ospite hanno cominciato a punzeccharsi, poi ad insultarsi, fino all’offesa finale detta dal tifoso incattivito dalla sconfitta: “ ti saluto, Africa”. Si sono messi in quattro per trattenere il nostro compaesano, che accecato dall’offesa é anche inciampato nelle gradinate di cemento.
Avevo otto anni ma capii perfettamente la gravità dell’insulto.
Ora, non la capisco più.