lunedì 15 giugno 2009

PASSEGGIANDO PER KINSHASA


Passeggiando per Kinshasa si possono vedere sempre cose nuove, diverse, un brulichio di genti differenti. È pur vero che questo vale per ogni altro posto del globo, la qual cosa toglie una po’ della profondità sottesa a questa frase. Andate alla Malpensa, ai mercati generali di Milano, al mercato del pesce di Molfetta: ci sarà sempre chi vi veda una babele di lingue e un fiorire di culture, facendo così di Babele il più inflazionato tra i luoghi del nostro immaginario, subito prima del dedalo (di viuzze) e del paradiso terreste; che il posto brulichi o sia un deserto vale comunque la pena di spenderci una frase ridondante. La vera rivoluzione sarebbero i posti medi, dove circola gente omogenea che raggiunge una densità abitativa nella norma, lasciando quindi ben poco spazio all’immaginazione. Lì si che ci sarebbe da raccontare qualcosa di diverso. Ad avercene, di posti simili.
Kinshasa quindi è un posto medio, nel senso della medietà che ci si aspetta in un tropico qualunque, cancro o capricorno che sia. Musica dalle casse lungo la strada, gente seduta sul muretto che vende arachidi, pulmini stracarichi oltre l’inverosimile eccetera eccetera. Canali di scolo a guisa di fiumiciattoli misteriosi, da cui ci si aspetterebbe da un momento all’altro di vedere discendere una piroga che trasporta banane; il tutto ricoperto da una spolverata di allegra spazzatura.
Oggi passeggiavo non lontano da casa, incamminandomi verso il gelataio (ebbene sì, anche ai tropici fanno il gelato). Il famigerato brulichio eccetera di colpo mi ha fatto rendere conto di una cosa: quanto sia diventato sordo e cieco in questi due anni passati qui, insensibile ormai alla babele, ai dedali e perfino ai paradisi terrestri. Due anni fa per prima cosa non sarei mai uscito da solo , anche solo per fare poche centinaia di metri. Ancora mi spaventava la fama di Kinshasa come città pericolosa, fama rivelatasi poi infondata. E con essa, è sparito anche quel senso del pericolo, magari non proprio pericolo vero ma un po’ di quel rischio che contribuisce a farci lasciare i nostri paesi e venire a vedere cosa c’è dall’altra parte. Hic sunt leones, venite a cercarveli.Durante le prime uscite per la città ogni lucertola colorata, ogni bambino straccione con le infradito, ogni baobab striminzito era per me fonte di stupore, “LAFRICA” tutt’attaccato che mi immaginavo da bambino , le pance gonfie e le donne con i secchi sulla testa. Ora sovrappensiero penso agli affari miei, schivo i rifiuti e le pozzanghere con destrezza e occasionalmente saluto qualche conoscente. Oggi ho anche guardato negli occhi un signore che lavora di solito non lontano da casa, seduto sotto un albero dove scolpisce tamburi e maschere. Si beveva un caffè, guardava lontano e chissà cosa pensava. E mi è venuto un pensiero, chissà cosa farà quando sarò via, è abbastanza stupefacente pensare che la gente esiste, vive, lavora, fa l’amore e muore anche se non ci siamo noi lì, a vederli. Io ero solo un pedone per lui, forse mi ha notato per il mio colore, e per me lui era uno sfondo, coreografia. E ho capito che morirà, e io pure , nell’indifferenza reciproca, e può sembrar triste ma va bene così, a distanza di migliaia di kilometri si vive e si muore e si tira avanti reciprocamente, e anche se si abita vicini vicini spesso non siamo che figuranti nelle vite degli altri. In fin dei conti non ce ne frega un granché delle persone che attraversano la nostra vita, e non potrebbe essere se non così, rispetto chi mi passa accanto ma non posso certo commuovermi per chiunque.
Questa è la maledizione di quelli che partono per scoprire il mondo, lasciare la banalità della propria casa per scoprire sempre nuove cose, finché ci si rende conto che il nuovo è di nuovo banale e non resta che cambiare casa,un altro posto da scoprire e di cui innamorarsi e di cui disinnamorarsi poco dopo e via così, in una girandola di scoperte che ti lascia ad un certo punto triste e solo e sradicato, né dove restare né dove tornare. C’è n’è da invidiare quelli che hanno speso una vita in ufficio, sposati alla carriera per non sentire il vuoto che pian piano cresce dentro, ma d'altronde che serve una ricca vita spirituale se poi il vuoto te lo ritrovi di fuori.
Tirando le somme di quello che ho imparato qui e ripensando a cosa mi aspettavo quando arrivai, posso dire che non sono diventato africano, son rimasto straniero a casa d’altri e una casa io l’ho, e mi aspetta e ci tornerò. Con questo non voglio dire che la gente non possa trasferirsi e cambiar casa, ma bisogna accettare che quel paese diventi la nostra banalità, perchè solo nella banalità c’è la bellezza e ci si sente a casa. Ho imparato che gli africani c’erano e ci sono tuttora, che per anni hanno vissuto e lavorato e lottato senza che le nostre strade si incontrassero ma non per questo loro non avevano il diritto di esistere e non l’avranno poi, abitanti di un’altra, ennesima Babele.
Ho conosciuto la loro banalità, ma che bellezza.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

L'osservatore attento non si lascia sfuggire il significato delle cose e dei rapporti.L'Africa da' questa possibilita'! Francesca

Cesco ha detto...

perchè Tin Tin dice che l'afica sarà la Chicago del mondo?
e quando l'ha detto?
articolo toccante! complimenti
scusa se sono "banale"
ciao a tutti due.

Cesco ha detto...

errata corrige..(che l'africa sarà)

Anonimo ha detto...

Si, probabilmente lo e